Scrivere Don Chisciotte o viaggiare sulla Luna è stato possibile grazie al cervello umano, un prodigio dell’evoluzione che la scienza aspira a comprendere e replicare.
La cognizione, l’azione e l’emozione derivano dallo scambio di impulsi elettrici tra neuroni. Tutto ciò che sappiamo del mondo, come lo percepiamo e come interagiamo con esso dipende dal cervello. Ma la nostra conoscenza del cervello è ancora limitata e per poterla replicare è necessario conoscerla intimamente. Scoprirne i segreti è una delle grandi sfide scientifiche di questo secolo.
Prova della grandezza della sfida è l’esistenza di iniziative governative su larga scala come l’European Human Brain Project (HBP) o l’American BRAIN Initiative. Entrambi i progetti hanno numerosi gruppi di ricerca dedicati a svelare la struttura e la funzionalità del cervello dai livelli molecolari o cellulari ai grandi centri nervosi coinvolti in compiti specifici.
Come ha già dimostrato il Progetto Genoma Umano, la collaborazione è essenziale per affrontare una sfida di questa dimensione. Nel caso di HBP, ricercatori di oltre 140 istituzioni scientifiche di tutto il mondo hanno collaborato dal 2013 per tradurre la conoscenza del cervello umano in miglioramenti della salute e sviluppo tecnologico, disponendo a loro volta di un’area dedicata allo studio delle implicazioni sociali ed etiche del progresso fatto.
Se riusciamo a capire come funziona il cervello, possiamo diagnosticare e curare più efficacemente le malattie neurologiche che ci resistono, come l’ Alzheimer o il Parkinson.
A sua volta, la conoscenza dei processi cognitivi del cervello serve come ispirazione per nuove tecnologie in campi come l’intelligenza artificiale o la robotica.
Indice
Simula il cervello: dividi et impera
Imitare il modo in cui funziona il cervello consente di progettare algoritmi che scoprono come risolvere problemi o sviluppare modelli computazionali di centri nervosi che assistono i robot in compiti altamente sofisticati, come l’apprendimento e l’adattamento a situazioni impreviste.
Questi modelli computazionali, purché rispettino le caratteristiche biologiche dell’area nervosa che simulano, servono anche come strumenti per le neuroscienze. Coinvolgono organoidi virtuali che consentono ai neuroscienziati di studiare patologie e testare possibili trattamenti, che sono difficili da studiare nell’uomo per ragioni etiche.
Data la complessità del cervello, la scienza ha scelto di suddividere il suo studio in parti più piccole: gruppi di neuroni che si raggruppano seguendo una struttura simile o aree nervose legate a una funzione specifica (cervelletto, ippocampo…). Stiamo per simulare parti del tutto. Forse quando avremo tutti i pezzi del puzzle potremo metterli insieme e, usando il nostro cervello, capirlo.
Il cervelletto, il cervello piccolo
I circa 86 miliardi di neuroni del cervello umano sono distribuiti in una struttura altamente eterogenea, complessa e apparentemente caotica. Risalta però un’area proprio all’opposto, una struttura semplice e regolare. Mi riferisco al cervelletto (dal latino cervelletto, “cervello piccolo”), situato nella parte posteriore del cranio e che concentra più della metà dei neuroni del sistema nervoso.
Questa zona nervosa integra percorsi sensoriali e motori. Il cervelletto riceve informazioni dai sensi, le elabora e attiva una risposta motoria. Svolge un ruolo fondamentale nell’esecuzione di movimenti precisi, di coordinazione o equilibrio.
Nel cervelletto sono organizzati diversi tipi di neuroni che seguono una struttura a strati interconnessi da sinapsi. Alcuni di questi strati sono dotati di plasticità, che consente l’apprendimento.
Già all’inizio del XX secolo, Santiago Ramón y Cajal ha magistralmente dettagliato uno dei tipi di neuroni nel cervelletto, le cellule di Purkinje. Successivamente, è stato possibile definire il resto della struttura cerebellare e studiare la sua diretta implicazione nell’apprendimento motorio.
Ad esempio, se giochiamo a tennis e lanciamo la palla fuori dal campo, il cervelletto impara a correggere quella deviazione tra ciò che volevamo fare e ciò che abbiamo fatto. È in grado, attraverso tentativi ed errori, di regolare le azioni motorie in modo che le loro conseguenze corrispondano alle nostre aspettative.
Neuro-robotica, ispirazione biologica
La robotica tradizionale utilizza robot e controller in grado di eseguire compiti motori specifici con elevata precisione. Ma se l’attività o il robot cambiano, è necessario un nuovo controller. Per sviluppare robot più versatili, in grado di svolgere compiti più complessi, come apprende il tennista dall’esempio precedente, la robotica si ispira alla biologia.
Così, nel gruppo di ricerca Applied Computational Neuroscience (Department of Computer Architecture and Technology, University of Granada), abbiamo sviluppato un cervelletto artificiale che imita l’umano. Lo studio, pubblicato sulla rivista Science Robotics, applica il cervelletto simulato per controllare il movimento di un robot. La struttura omogenea del cervelletto e il suo ruolo riconosciuto nell’apprendimento motorio lo rendono il candidato ideale per essere simulato e applicato alla robotica.
Utilizzando questo modello simulato del cervelletto umano, che replica le caratteristiche principali della sua controparte biologica, siamo riusciti a far imparare da zero a un robot, un braccio robotico, quali comandi deve inviare ai suoi motori per svolgere diversi compiti.
Così come un bambino impara ad andare in bicicletta, scoprendo quali comandi deve inviare ai muscoli delle gambe per muovere i pedali e al resto del corpo per mantenere l’equilibrio, il modello simulato del cervelletto apprende i comandi che deve inviare a i motori del robot in modo che il braccio esegua il percorso desiderato.
Con questo controller, il robot è in grado di adattarsi ai cambiamenti dinamici, come peso aggiunto o forza elastica esterna. Cioè, impara e cambia i suoi comandi in base a ciò che sta accadendo nel mondo esterno.
Un’altra caratteristica innata del cervelletto biologico è la sua capacità di prevedere azioni future utilizzando informazioni sensoriali passate. Fisiologicamente, è inevitabile che le informazioni sensoriali impieghino alcuni millisecondi per raggiungere il cervelletto, così come la corrispondente risposta motoria non raggiunge immediatamente i muscoli. Impieghiamo qualche millisecondo per rispondere, ad esempio, alla palla che sta per colpirci alla testa.
Per muoversi con precisione, il cervelletto compensa questi ritardi temporanei presenti nel ciclo percezione-azione attraverso un comportamento predittivo: anticipa ciò che sta per accadere e ci allontaniamo in tempo dalla palla.
Questa caratteristica del cervelletto biologico ci consente di applicare il nostro modello simulato in scenari di controllo robotico affetti da ritardi temporali. Nel nostro lavoro, controlliamo il robot utilizzando una connessione WiFi e anche tramite telecomando, stabilendo una connessione di circa 400 chilometri tra il controller e il robot.
Negli scenari di controllo classici, in cui il robot e il controller sono collegati direttamente via cavo, i ritardi sono trascurabili. Ma in scenari sempre più comuni come il controllo wireless, remoto o cloud, i ritardi sono inevitabili, quindi sono necessari nuovi tipi di controller di fronte a questo divario percezione-azione. Anche in questo caso, il controller che simula il cervelletto umano offre una soluzione a questo problema.
Progressi tecnici che non abbiamo ancora immaginato
Non sappiamo ancora come si formano la memoria o la creatività. Siamo lontani dal comprendere il cervello umano nel suo insieme e simularlo completamente non è ancora nelle nostre possibilità. Penso che arriveremo su Marte prima di una piena conoscenza del cervello. La comprensione passa attraverso lo studio sia del livello cellulare che del livello funzionale più astratto. Per questo sarà fondamentale continuare con lo sviluppo di tecnologie che offrono prospettive prima impossibili, progressi tecnici che probabilmente oggi non siamo nemmeno in grado di immaginare.
Chi avrebbe mai immaginato che le alghe fotosensibili sarebbero state la chiave per rivoluzionare le neuroscienze. Queste alghe nascondono le basi dell’optogenetica, una tecnica che consente l’induzione di attività elettrica in neuroni specificamente selezionati per studiarne l’impatto sulla funzione e sul comportamento del cervello.
La ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie richiede tempo; l’evoluzione ha avuto tutto il tempo del mondo. Quando si tratta di rispondere a problemi tecnologici, indaghiamo come l’evoluzione sia riuscita a superare ostacoli simili fino a raggiungere forme di vita stabili e variegate.
Forse la stessa biologia nasconde le risposte per sviluppare gli strumenti che ci permetteranno di decifrare la sua più grande conquista, il cervello umano.
Autore
Ignacio Abadía Tercedor, Predoctoral Researcher – Applied Computational Neuroscience Research Group, University of Granada