“Le risorse non sono, diventano”. Questa affermazione, forgiata nella prima metà del XX secolo dall’economista Erich Zimmerman, acquista tutto il suo significato durante questo primo quarto del XXI secolo.
Le risorse sono concetti che hanno grandi dinamiche funzionali. Si evolvono parallelamente all’umanità, alla cultura scientifica dominante, così come alla nostra interazione con la natura. Già Zimmerman affermava che questa evoluzione non è continua e che è strettamente associata alle successive crisi che l’umanità ha attraversato da quando si è affermata come specie dominante sul pianeta.
La soluzione all’attuale crisi climatica e all’attuale transizione energetica comporta la diversificazione delle fonti energetiche prive di carbonio. Ciò si può ottenere sfruttando risorse poco utilizzate (maree, geotermia) e risorse, in una certa misura, rivoluzionarie (fusione nucleare, idrogeno), nel più puro stile Zimmermann.
L’interesse per l’uso dell’idrogeno prodotto come vettore energetico è aumentato negli ultimi anni. Proprio qui entra in gioco la scoperta di una risorsa naturale ignorata fino a tempi molto recenti: l’idrogeno nativo di origine geologica.
Dove si trovano le emanazioni native di idrogeno?
L’esistenza e l’abbondanza delle emissioni native di idrogeno è ancora oggi sistematicamente ignorata dalla stragrande maggioranza degli specialisti della transizione energetica. Tuttavia, fin dall’antichità è noto che aree della crosta terrestre emettono continuamente gas infiammabili, estranei agli idrocarburi fossili. Spiccano i cosiddetti “fuochi eterni” del Monte Chimera, a Yanartaş (Turchia). Questi ultimi erano già citati da autori classici come Ctesia di Cnido e Plinio il Vecchio più di 2500 anni fa.
Tre scoperte sono state fondamentali nel recente sviluppo delle conoscenze sui sistemi geologici dell’idrogeno nativo.
Nel corso dell’anno 2000 è stata condotta una campagna oceanografica nel massiccio di Atlantide in cui sono state scoperte una serie di insolite sorgenti termali sottomarine (Lost City, Nord Atlantico). Questi sono formati da bianchi camini verticali di calcite – detti fumaroli bianchi – alti fino a decine di metri, situati a profondità comprese tra i 750 e i 900 metri. Attraverso di essi avviene l’espulsione di salamoie calde e alcaline, insieme a gas che contengono fino al 70% di idrogeno nativo.
Il ricercatore francese Jean-Luc Charlou e coautori hanno calcolato che ciascuna di queste risalite emette tra i 5 e i 10 milioni di metri cubi all’anno di idrogeno. Si stima che ci siano diverse migliaia di sorgenti sottomarine simili sparse negli oceani.
Pochi anni dopo (2005), i geologi russi Vladimir e Nikolay Larin hanno scoperto strane depressioni subcircolari (“zapadyny“) nell’oblast di Voronez, a circa 600 km a sud di Mosca. Oggi sono conosciuti come “cerchi delle fate“.
Queste depressioni russe sono caratterizzate dalla completa assenza di vegetazione e da una struttura subcircolare esterna attraverso la quale emanano quantità significative di idrogeno, azoto ed elio nativi. Questa scoperta è passata inosservata in Occidente fino a quando Nikolay Larin ha convinto i ricercatori dell’IFPEN (Parigi) ad andare a Voronezh e convalidare le loro scoperte. Successivamente, strutture simili sono state trovate in Australia, Brasile, Mali e Stati Uniti.
Nel 1987 è stato scavato un pozzo poco profondo per l’acqua a Bourakebougou, circa 50 km a nord di Bamako (Mali). Durante la perforazione, il pozzo è improvvisamente esploso perché un operatore stava fumando, riportando ustioni significative. Il pozzo è stato testato, rapidamente tappato e abbandonato, nella convinzione che fosse stata perforata una sacca poco profonda di gas naturale.
Nel 2011, l’azienda locale Hydroma ha ottenuto campioni di gas per l’analisi che, inaspettatamente, hanno restituito una composizione del 98% di idrogeno. A fronte di questi risultati è iniziata una campagna esplorativa con la perforazione di oltre 25 pozzi. Tutti i sondaggi mostrano concentrazioni di idrogeno nativo comprese tra il 90 e il 99%. Questa scoperta, frutto del caso, è l’unico giacimento in sfruttamento fino ad oggi. L’idrogeno ottenuto viene attualmente bruciato in loco per la produzione locale di elettricità.
Un cambio di paradigma: da vettore a fonte di energia
Queste scoperte stanno causando un importante cambiamento di paradigma. L’idrogeno è passato dall’essere considerato esclusivamente un vettore energetico (idrogeno prodotto) a una possibile fonte di energia (idrogeno naturale). L’idea sbagliata dell’idrogeno naturale è stata finalmente abbandonata come mera curiosità scientifica.
L’interesse per l’idrogeno nativo è notevolmente aumentato nell’ultimo decennio. Si è scatenata una vera e propria febbre esplorativa globale, la cui massima espressione si sta sperimentando in Australia e negli Stati Uniti. In questo momento (2023) stanno iniziando i test di produzione del primo pozzo perforato esclusivamente per la prospezione di idrogeno nativo in Nebraska dalla società Hyterra (USA) senza, per il momento, dati pubblici.
Le scoperte più recenti suggeriscono che è possibile caratterizzare i meccanismi geologici che controllano la produzione e l’emissione di idrogeno nativo. Questi progressi stanno facilitando lo sviluppo di strumenti di prospezione più efficaci. L’elevata reattività dell’idrogeno in natura, così come i suoi bassi tempi di permanenza, indicano che ci troviamo di fronte a una possibile fonte di energia rinnovabile e sostenibile. Inoltre, l’associazione dell’elio con l’idrogeno rende l’esplorazione di queste risorse ancora più attraente. L’elio è un gas nobile, considerato strategico e di straordinaria importanza tecnica e industriale.
L’impatto dell’idrogeno naturale nella transizione energetica dipende dall’avanzamento della conoscenza di questi sistemi, ma anche dal necessario supporto della ricerca pubblica e dei settori industriali.
Autore
Jordi Tritlla Cambra, Istituto di Geoscienze di Barcellona (Geo3Bcn – CSIC)