Da cosa dipende la fiducia in se stessi?

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La ricerca scientifica ha dimostrato che l’autostima è un fattore chiave nell’insorgenza di disturbi mentali, soprattutto quelli di natura ansiosa e depressiva. Una migliore comprensione di come l’autostima e la fiducia nelle nostre capacità si stabiliscono e si mantengono nel corso della vita potrebbe consentire di gestire meglio alcuni di questi disturbi.

Ancora oggi, i meccanismi cognitivi e cerebrali che sono alla base dell’autostima o che portano alla sua alterazione rimangono poco compresi. Prima di poterli delucidare è necessario rispondere ad alcune domande: a quale livello si esprime la fiducia? Perché è così variabile da un individuo all’altro? Esistono “profili psichiatrici” legati all’autostima?

Autostima e impegno

Studi di psicologia mostrano che un’elevata fiducia in se stessi e nelle proprie capacità è associata a un più forte senso di controllo su ciò che ci accade, il che è più favorevole a cercare di superare le sfide. Fornisce inoltre una maggiore motivazione, che si traduce nell’attuazione di maggiori sforzi di fronte a possibili difficoltà. Pertanto, una tale mentalità crea un contesto che aumenta le possibilità di sperimentare il successo, il che, a sua volta, può aumentare la fiducia in se stessi.

Viceversa, tutti abbiamo l’intuizione che se, al momento di intraprendere un progetto, una persona manca di fiducia in se stessa, rischia di “non crederci”, e quindi rinuncia a provarci. In questo modo diminuiscono le possibilità di successo e quindi le opportunità di aumentare positivamente la fiducia in se stessi.

Questa situazione potrebbe essere un fattore di rischio per la comparsa di disturbi d’ansia o depressivi, ma restano delle domande: è la bassa autostima che porta alla comparsa di disturbi d’ansia o depressivi? Oppure è l’esistenza di un disturbo d’ansia o depressivo che contribuisce ad abbassare l’autostima?

Per esplorare queste domande, dobbiamo esaminare il modo in cui gli individui esprimono giudizi sulla fiducia.

Elevata variabilità nella fiducia in se stessi

Quando osserviamo i giudizi di fiducia espressi dagli individui, ci rendiamo conto che esiste un’immensa variabilità. Pertanto, una persona depressa può sottovalutare la propria capacità di portare a termine un compito nonostante una prestazione paragonabile a quella degli altri, mentre una persona che soffre di disturbi cognitivi (in un contesto di insorgenza di demenza, ad esempio) può continuare ad avere fiducia nelle proprie capacità, nonostante i deficit in contesti diversi.

Questa variabilità, di cui non si conoscono le origini, si esprime in due forme principali.

La prima forma corrisponde al grado in cui i giudizi di confidenza espressi da un individuo gli permettono di discriminare tra le proprie risposte corrette ed i propri errori. Possiamo ad esempio essere troppo sicuri di noi, ma essere comunque un po’ meno sicuri quando abbiamo torto rispetto a quando abbiamo ragione. Al contrario, possiamo essere troppo sicuri di sé, ma ugualmente, indipendentemente dalla correttezza della nostra risposta, il che è “anche peggio”.

La seconda principale forma di variabilità nei giudizi di fiducia è dovuta all’esistenza (o meno), in media, di una discrepanza tra fiducia soggettiva e performance oggettiva, considerando la nozione di performance intesa in senso lato.

Abbiamo tutti visto che alcune persone si sottovalutano, mentre altre si sopravvalutano. Altri ancora, invece, sono piuttosto ben “calibrati”: riescono ad avere un livello di fiducia elevato quando la loro performance oggettiva è elevata, e inferiore quando la loro performance è davvero debole.

A livello di popolazione, una scoperta ben convalidata in psicologia comportamentale ed economia è che siamo (leggermente) troppo sicuri di sé. Ad esempio, più della metà delle persone pensa di guidare meglio della media, di essere più intelligente della media… Mentre dovrebbe essere (circa) la metà.

Ciò può riguardare anche la valutazione della validità della propria memoria: se un individuo lamenta una perdita di memoria, ha ragioni oggettive per lamentarsi? Oppure la sua memoria è effettivamente intatta, ma la sua percezione soggettiva della memoria è compromessa?

Storicamente, è stato difficile isolare i cambiamenti nell’autovalutazione indipendentemente dai cambiamenti in altre caratteristiche del nostro funzionamento cognitivo. Il compito è reso ancora più difficile dal momento che la fiducia viene espressa a diversi livelli.

Diversi livelli di fiducia

I nostri giudizi di fiducia sono espressi a diversi livelli gerarchici:

  1. la nostra fiducia in una decisione presa a livello locale (“Ho risposto correttamente a questa domanda”);
  2. la nostra fiducia in un compito (“Ho fatto abbastanza bene questo esame”);
  3. la nostra fiducia in un dato dominio cognitivo (“ho una buona memoria”);
  4. fino alla nostra fiducia in noi stessi, che costituisce un livello globale.

Queste distinzioni sono importanti: posso essere sicuro della mia capacità di guidare in caso di maltempo (dominio percettivo), mentre non sono sicuro di ricordare una lista di cose da fare (dominio della memoria).

Allo stesso modo, in alcuni tipi di esercizi, potrei essere in grado di “sapere quando so e sapere quando non so”, mentre per altri argomenti non sarò in grado di identificare bene i miei errori e i miei successi.

Questa questione del livello di fiducia ha implicazioni per gli interventi volti a ripristinare un’adeguata fiducia nei pazienti o negli studenti.

Due ipotesi principali

Attualmente coesistono due ipotesi sui meccanismi alla base dell’autostima.

Il primo è che ci sarebbe un meccanismo centrale di autovalutazione, che consentirebbe di valutare la fiducia in una risposta o in un determinato compito. Questo meccanismo sarebbe lo stesso in aree diverse, come la memoria, il linguaggio o il ragionamento. In questo caso, gli interventi volti a migliorare l’autostima dovrebbero mirare a “rieducare” o “allenare” questa capacità di giudizio molto centrale, indipendentemente dal compito da svolgere. I benefici poi si diffonderanno.

La seconda ipotesi postula che i nostri giudizi sulla fiducia non deriverebbero da un meccanismo centrale di autovalutazione, ma sarebbero intimamente legati a ciascun dominio. In questo caso ogni intervento dovrà mirare alla particolare area di interesse su cui si ritiene necessario agire.

Al momento queste due ipotesi restano dibattute. I risultati della ricerca, sia a livello comportamentale che neurale, tendono a indicare che la realtà è probabilmente una via di mezzo. Non ci sarebbe un unico meccanismo centralizzato – che probabilmente non garantirebbe sufficiente flessibilità, ma non ci sarebbe nemmeno un meccanismo specifico per ciascun dominio – che, al contrario, si rivelerebbe troppo inefficiente e costoso da alimentare per il cervello.

Profili eterogenei di salute mentale nella popolazione

Un’ulteriore difficoltà nello studio della fiducia è che l’attuale classificazione dei disturbi psichiatrici, secondo il DSM-5, il manuale di riferimento americano, viene messa in discussione dai ricercatori.

Ciò è particolarmente vero nel caso dell’idea che “un sintomo equivale a una malattia”. Ad esempio, essere ansiosi non è un sintomo diagnostico di un singolo disturbo psichiatrico: si può essere ansiosi in una depressione, in un disturbo borderline di personalità, ecc.

Al contrario, una malattia non significa un singolo sintomo. Nel caso dei disturbi ossessivi compulsivi (DOC), ad esempio, alcuni pazienti sono eccessivamente sicuri di sé, mentre la maggior parte è poco sicura di sé (perché sono molto ansiosi, ad esempio). Eppure la loro diagnosi è la stessa.

Ciò rende difficile prevedere in modo affidabile quale opzione di trattamento sarebbe più efficace per un dato paziente. Infatti, se la classificazione tradizionale fosse clinicamente rilevante, non sempre corrisponderebbe direttamente alla neurobiologia dei disturbi psichiatrici.

Per allontanarsi da questo approccio tradizionale, il cosiddetto approccio “dimensionale” si concentra sui sintomi sottostanti, che possono essere comuni a diverse malattie. Può essere vista come una classificazione alternativa, qualificata come “transdiagnostica”, cioè che funziona “attraverso” le diagnosi e le categorie classiche.

La matematica può aiutare a descrivere meglio la variabilità dei sintomi della salute mentale

Tradizionalmente, per diagnosticare i disturbi mentali, psicologi e medici si affidano ai sintomi riferiti dai pazienti, che li esprimono durante le consultazioni e rispondendo a questionari specializzati. Ad esempio, ci sono domande come “Hai difficoltà a prendere decisioni?“, “A volte ti senti ansioso al punto da avere difficoltà a respirare?“, eccetera.

Utilizzando strumenti di analisi basati sull’apprendimento automatico, i ricercatori hanno cercato di raggruppare i sintomi per identificare se esistono punti in comune tra le diverse patologie, piuttosto che studiare ciascuna malattia separatamente.

Una volta che siamo riusciti a stabilire raggruppamenti di sintomi comuni a diverse malattie, possiamo utilizzare tecniche sperimentali per comprendere meglio i meccanismi biologici, cognitivi o comportamentali coinvolti.

Per tornare all’esempio dei TOC, l’approccio dell’apprendimento automatico mira a identificare sottogruppi (ad esempio, un gruppo di “ansia”) delle forme della patologia che risultano in scarsa o eccessiva fiducia. La speranza è quella di poter offrire cure o psicoterapie più adatte a tutti. In effetti, è possibile che una persona con disturbo ossessivo compulsivo ansioso non risponda allo stesso modo a un determinato trattamento di una persona con disturbo ossessivo compulsivo in cui l’ansia gioca un ruolo minore…

Nella popolazione generale

L’idea è che i sintomi della salute mentale fluttuano naturalmente, non solo nei pazienti, ma in tutta la popolazione. E questo, anche nelle persone a cui non è stato diagnosticato un disturbo psichiatrico: siamo tutti in una certa misura più o meno ansiosi, più o meno impulsivi, più o meno ossessivi, ecc.

Utilizzando un approccio di apprendimento automatico su campioni di molti volontari, si è scoperto che le persone con sintomi di tipo pensiero più compulsivi e intrusivi generalmente hanno una maggiore sicurezza, ma un’autovalutazione meno affidabile. Questa miscela potrebbe spiegare effetti psicologici come la tendenza a trarre conclusioni affrettate.

D’altro canto, troviamo che le persone con ansia più marcata e sintomi depressivi hanno una minore fiducia nelle proprie decisioni, ma un’autovalutazione più accurata – a volte parliamo di “realismo depressivo”. Tuttavia, questi risultati sembrano dipendere dall’area in cui valutiamo la nostra fiducia.

Una migliore comprensione di come sono costruiti i giudizi di fiducia consentirà di determinare l’origine delle variazioni significative nell’autovalutazione che esistono da una persona all’altra. Può anche aiutare a prendere coscienza delle discrepanze che possono esistere tra la nostra prestazione e la percezione che ne abbiamo. E rendersi conto che a volte ci sono delle discrepanze tra il nostro vero successo e l’immagine che ne abbiamo…

Autore

Marion Rouault, Istituto per il cervello e il midollo spinale (ICM)